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Ridente paese adagiato sulla sponda orientale del lago di Como.

Binario numero uno. L’altoparlante annunciò l’arrivo del locale. Il viaggio in treno finiva lì.

Che Lea avesse l’aria perplessa e il passo incerto era più che naturale; tra gli sballottamenti nel vagone ferroviario, l’afrore nauseante dei sedili e delle ritirate attigue, l’incubo notturno si dileguava piano in cerca di prospettive.

Ora avrebbe dovuto prendere il pullman per raggiungere il piccolo centro di montagna.

Con la colonna vertebrale spostata ad ago di bilancia per il peso della valigia, puntò verso le scalinate grigie e polverose della stazione. Ticchettarono i mezzi tacchi sull’impiantito cui si sovrapposero i suoni disturbati degli annunci. Lea percepì l’odore di sigarette mentre osservava le scritte oscene dei muri.

L’autista sul piazzale, un tipo corpulento dalle mascelle serrate in un’espressione imbronciata, a palo con un collega accanto all’autobus di linea, riconobbe all’istante l’emigrata del Sud e attese malignamente il suono delle consonanti raddoppiate e delle vocali aperte .

“Mi scusi, a che ora parte il pullman per P.?”

“Alle dodici” rispose l’uomo, schiacciando sotto la suola il mozzicone di una Marlboro .

“E per i biglietti?”

“All’edicola della stazione” e accennò con il braccio.

Lea posò  la valigia pesante accanto a una ruota anteriore della corriera e si avviò frastornata, imponendosi di ignorare il disagio non solo fisico.

Poi prese posto accanto al finestrino; voleva sorbire con sguardo attento il paesaggio montano e vallivo, l'’infinità di verde, i costoloni di roccia e le case sparse tra i boschi o agglomerate armonicamente insieme.

-Aveva abbandonato Vibo per una cattedra di ruolo in un centro sperduto delle Prealpi-

Le contorsioni compiute dal busto dell’autista annunciavano una serie di tornanti.

Lei ricacciò i bocconi di pane e formaggio deglutiti in fretta e solitudine la sera precedente . Non aveva ancora assimilato il cibo compresso e alterato dall’odore della borsa di plastica portata sul vagone letto.

Guardò con insistenza da dietro i vetri gli edifici abbarbicati ai pendii: tetti in ardesia e cascinali in pietra viva, cielo d’ottobre grigio, annuvolato sul verde scuro dei boschi.

Le note gracchianti dell'autoradio non smorzavano la malinconia.

 

Il pullman si fermò in piazza davanti alla chiesa parrocchiale. Capolinea. Quando Lea scese, si sentì più sola e più stanca soffocata dal giro di montagne incombenti intorno. Smarrita.

Le serrande dei negozi, data l’ora, erano abbassate. Un ragazzo pattinava a rotta di collo lungo la via principale. Qualche bambino in strada rideva di qualcosa con altri.

L’insegnante pensò di entrare nel bar, per chiedere di un albergo o di qualcuno che affittasse camere. La barista fu gentile: le indicò l’ufficio della Pro loco , distante due passi.

"I Tagliaferro sono brave persone , affittano ai professori”.

Per spostarsi verso la via parallela si doveva scendere le scale. Salire e scendere le scale era un esercizio fisico quotidiano che offriva il paesello a quota mille.

-Anche a Vibo si salivano le scale. Ma solo per andare al Santuario-

Il padrone di casa le spalancò la porta dell’appartamento in un corridoio stretto e buio sul quale si affacciavano alcune camere.

“Prendo quella in fondo” si affrettò lei schiva, desiderosa soltanto di sdraiarsi nel letto e di dar sfogo alle lacrime.

“Sono cento ventimila mensili, compresi riscaldamento, luce, gas e acqua. Se vuol ricevere qualche telefonata, può dare il numero del nostro apparecchio.”

Basso di statura, le mani nodose, avanti negli anni. Una vita di sacrifici e risparmi.

“Grazie, se dovesse esserci necessità”.

L’uomo s’intratteneva ancora.

“Vede – le disse non senza un certo impaccio – ecco… se vuole invitare qualcuno, può farlo, però…insomma…noi…io e mia moglie ci teniamo molto alla moralità”.

Orgoglio a fior di pelle, Lea era arrossita.

“Ah, se è per questo, non deve avere preoccupazioni…”

“Mi scusi, professoressa…” la voce era piena d’imbarazzo.

“No, ha ragione – concluse lei superiore e, rinfrancata nell’avvertire che adesso poteva anche cambiare discorso, buttò lì tanto per dire qualcosa - mi scusi, io da Vibo ho portato lo stretto necessario. Sa, sono piuttosto freddolosa e qua i rigori dell’autunno si fanno sentire presto”.

“Ci sono alcune coperte nell’armadio – informò l’uomo ritrovando il brio – e, se non dovessero bastare, può chiedere alla mamma giù…Ha già visto dov’è la scuola?”

“No, non c’è stato il tempo”

“E’ qua vicino – fece lui pratico – basta seguire la strada fino al bivio dove c’è anche l’indicazione. La Scuola Media è in basso, un edificio nuovo”. Sorrise scoprendo i denti corrosi.

“La lascio, sarà stanca. Non voglio trattenerla” concluse delicato e si avviò verso la prima rampa di scale con passo veloce, avido di uscite nei boschi e di lavori lungo i terrazzamenti.

Lea si chiuse lentamente in camera. Impiantito in palladiana e mobilia essenziale.

Posò la valigia in tela scozzese su una sedia e l’aprì: prelevò i vestiti e li dispose sul letto.

La madre le aveva preparato le maglie intime di lana e le panciere in una busta di plastica, mentre le gonne erano state sistemate dentro sacche separate. Aveva portato solo un leggero soprabito, perché contava di tornare a Vibo a Natale e prendere i capi più pesanti.

Riempì l’armadio delle sue cose, constatando con disappunto che le ante si fissavano solo inserendo nell’apertura un cartoncino. Decise di non reclamare . Il prezzo dell’affitto era modico. Inoltre l’ambiente era lindo, ben rischiarato dalla finestra in faccia all’Alpe .

Indossò le ciabatte, perché sentiva i piedi gonfi ; soprattutto la infastidiva l’odore ferrigno lasciatole addosso dal vagone ferroviario. Anche dopo che ebbe sciacquato faccia e mani in bagno, se lo sentiva tra i capelli. Tolse le ciabatte e si sdraiò sul letto. Guardò fissa il lampadario a campanula penzolante dal soffitto e pensò che a quell’ora forse sua madre aspettava una telefonata rassicurante.

“Ho trovato una camera in affitto. Il paesino è grazioso, anche se un po’ isolato. La famiglia mi piace. Non ho ancora visto la scuola”.

Sì, tra un quarto d’ora sarebbe scesa in strada per raggiungere la cabina telefonica vicino alla chiesa, avrebbe respirato aria di fumo e di pioggia, di cenere e di neve…

Per il momento voleva intrattenersi ancora un po’ tra le quattro mura, conoscere gli odori e i suoni di una casa altrui.

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